Di Robert Aldrich sappiamo ormai tutto: del suo stile potente, sanguigno, portato alla descrizione ed alla denuncia della violenza, della corruzione o, come qui, del militarismo e della guerra, attento ai dettagli fisici dei protagonisti, alle gocce di sudore o alle pupille dilatate riprese in primissimi piani, in una ricerca di intimità quasi fisica con la violenza delle situazioni.

Ma i rischi del cinema di Aldrich sono evidentissimi in questo NON E' PIÙ TEMPO DI EROI: a voler giocare troppo appassionatamente con l'azione, con la dinamica delle situazioni, le intenzioni si capovolgono. Se l'inizio contenuto del film lascia comprendere quali erano queste intenzioni (la denuncia dell'assurdità della guerra, del cosiddetto eroismo, del significato dell'obbedienza, del rifiuto di pensare), il finale denuncia l'impossibilità per il regista di portare in porto questo discorso. Perché il suo piacere così evidente per la zoomata sulla mitragliatrice o sulla bomba a mano, per il fischio della pallottola o per il freddo di una canna di fucile è più forte di qualsiasi altra preoccupazione. E come si può condannare la violenza, denunciare la guerra, se con queste cose si fa, appassionatamente, dello spettacolo?